CONTROL - Ian Curtis

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  1. giborg
     
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    Cuori spericolati
    Joy Division
    di Giovanni Ciullo
    Ian Curtis, il “poeta” di Manchester morto a 23 anni, leader di una band mito raccontato ora sul grande schermo. Da vedere per la follia creativa del personaggio, la splendida colonna sonora, la bravura (con somiglianza straordinaria) di Sam Riley, suo doppio cinematografico. Ma anche per la moda
    La storia ama giocare con le date, accavallare i destini, stupire. Capita così che il 1980, il primo anno di quel famigerato ego-decennio, è quello in cui i due protagonisti di queste pagine incrociano le loro vite per pochi giorni appena. Ian Curtis, voce e anima dei Joy Division, si uccide a 23 anni lasciando ai posteri le sue liriche strazianti e un'eredità pesante: l'invenzione del dark rock. E mentre lui muore, quasi contemporaneamente e a pochi chilometri di distanza, nasce Sam Riley, destinato - 25 anni dopo - a interpretarne il ruolo al cinema con una somiglianza perfetta, a tratti ossessiva.

    Il film, "Control", è un piccolo capolavoro in bianco e nero. Cupo e bellissimo, racconta la storia di una band di Manchester entrata in pochi anni nel mito con i suoni gelidi e geometrici della sua musica, la voce liquida e i testi sconsolati del suo leader poeta. E per quel modo speciale di muoversi sul palco: l'imitazione delle crisi epilettiche di cui Ian Curtis soffriva. "Il grande male", scriveva nei suoi diari giovanili, trasformato finalmente in un incredibile show. Il film, che ha una colonna sonora da brividi (i Joy Division, ovviamente, ma anche i Sex Pistols, David Bowie, i Velvet Underground) è l'opera prima di Anton Corbijn: regista al debutto, ma noto fotografo e autore di corti musicali già apprezzato. All'ultimo Festival di Cannes ha conquistato il pubblico, la critica e due premi speciali. In autunno arriverà anche in Italia e c'è da scommettere (e sperare) che abbia il successo che merita.

    Ma torniamo ai Joy Division. Stanno per iniziare gli Ottanta. L'edonismo e le spalline lievitano a livelli spaziali. I Duran Duran e gli Spandau Ballet sono lontani, per cronologia e livello musicale. Nella provincia inglese quattro ragazzi provano a rompere la noia, suonando. Prima si chiamano Warsaw (un omaggio a una canzone di Bowie), poi Ian propone un nuovo nome, ispirato a quella zona (la Joy Division, appunto) all'interno della quale - nei campi di concentramento - venivano rinchiuse le donne destinate a diventare le prostitute dei capi nazisti. Ian è il frontman del gruppo. Il protagonista assoluto. Un ragazzo che non si ama ("Non penso di vivere molto oltre i vent'anni", aveva previsto), ma ama troppo.

    Ama la musica, innanzitutto. Le droghe, l'alcol, le ragazze. La moglie, Deborah, sposata troppo giovane (lei sulla loro storia ha scritto un libro, "Touching from a distance: Ian Curtis and Joy Division", sul quale il film si è basato). E la figlia, Nathalie, arrivata all'improvviso. Come il successo. E come la morte, che costringerà gli altri (per un patto stabilito da tempo) a cambiare nome, diventando i New Order.

    La critica musicale scriverà: "I Joy Division ci hanno lasciato solo un piccolo pezzo di storia della musica, ma la loro eco rimbomba ancora". C'è infine un'ultima cosa che colpisce guardando le foto d'archivio di Ian (e le scene del film: bravissimo il costumista, Julian Day): la sua straordinaria modernità in fatto di look. Il taglio di capelli è lo stesso che sfoggiano oggi i ragazzi in passerella da Milano a New York: caschetti con frangetta, quelli che fanno impazzire Miuccia (Prada). I trench, i cappotti, hanno una linea perfetta. I pantaloni slim aderiscono al corpo per aiutare chi li porta ad aderire alla vita. E sembrano quelli disegnati da Hedi Slimane per Dior Homme. Le camicie con cravattina, le maglie strette potrebbero arrivare direttamente dalle ultime collezioni. Le sacche a spalla sembrano quelle di un Beckham che parte per un torneo e l'allure sul palco è una via di mezzo fra Mika e Pete Doherty. Insomma, roba da copiare a piene mani.

    Resta solo un rammarico: chissà quanta altra storia avrebbero scritto i Joy Division se Ian non fosse morto prima di coronare il sogno americano.

    Il 20 maggio del 1980 un aereo avrebbe dovuto portare i ragazzi di Manchester verso il successo annunciato del loro primo tour negli States. Ma Ian su quell'aereo non salirà. La notte fra il 17 e il 18 è da solo in casa, guarda in tv "La ballata di Stroszeck" di Herzog, ascolta "The Idiot" di Iggy Pop. E si uccide, impiccandosi.

    Perché la vita non gli bastava per riempire il vuoto, colorare il nero. In quella stessa America dove lui non è mai arrivato, ci sbarcherà presto il suo doppio: su Sam Riley, sul suo talento, a Hollywood ci stanno già scommettendo. Stanco della dance commerciale e incuriosito dalla new wave, mi affannavo alla ricerca di band tipo Talk Talk, Depeche Mode, Eurythmics, Simple Minds, che già conoscevo e amavo. Eravamo a metà anni Ottanta, prima della rivoluzione digitale, di Internet, quando l'informazione viaggiava ancora nel mondo degli atomi, non dei bit. Mtv non c'era. I più fortunati, in Italia, potevano vedere Videomusic. Non ero fra quelli. Un giovane Gerry Scotti presentava videoclip a "DeeJay Television", ma la fascia oraria impediva che si osasse qualcosa che non fosse pop. Senza MySpace e YouTube non restava che acquistare una rivista di musica specializzata e sperare in una rivelazione. La sorte mi diede in mano "Rockerilla" - ricordo la copertina gialla con la foto dei Gun Club - dove si recensivano due formazioni dark wave. Corsi a comprare il vinile dei Sisters of Mercy ("First and last and always"), band che assieme a Siouxsie and the Banshees, Cure e Joy Division, avrebbe tracciato il mio futuro musicale. Era l'inverno della grande neve.

    Cinque anni prima, nel 1980, Ian Curtis s'era tolto la vita e la sua band, i Joy Division, cambiati pelle (dance elettronica) e nome (New Order), scalava le charts europee al ritmo di "Blue Monday". Incontrare i Joy Division non era così ovvio. La musica per i teenager era quella di Sandy Marton, Via Verdi, Tipinifini, Taffy e qualsiasi cosa benedetta da Cecchetto. Bisognava guardarsi intorno, cercare chi avesse un look riconducibile al dark. Non fu difficile avvicinare le persone giuste e creare le affinità elettive. Conobbi gruppi italiani come Diaframma e Litfiba, frequentai discoteche come l'Aleph di Gabicce o l'Oceanic di Porto Civitanova (raccontato anche da Silvia Ballestra). Lì incontrai i Joy Division.

    Le atmosfere claustrofobiche della loro musica, la ritmica allucinata della batteria di Stephen Morris, il basso sinuoso di Peter Hook, la chitarra nervosa e disperata di Bernard Sumner, ma soprattutto la cupa voce di Ian Curtis e la sua morte mi rapirono all'istante. Quei ragazzi divennero la band della mia anima. Oggi, per un ventenne, la strada verso i Joy Division non è più così piena d'ostacoli. Su MySpace e YouTube c'è di tutto. I Joy Division sono più popolari di allora, come dimostra il successo di formazioni che ne hanno raccolto l'eredità: i Placebo, i newyorkesi Interpol, i britannici Editors. Né è assente la loro influenza nell'attuale panorama italiano. Quanto al sottoscritto, riposti in cantina vinili e giradischi e convertito agli Mp3, la musica dei Joy Division è ancora lì a tenermi compagnia.

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  2. bishop dance
     
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    giborg, ti rimando al mio commento in bishop's corner . . .
     
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  3. rosalita.27
     
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    GRAZIE GIBORG , GRAZIE.
     
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  4. bishop dance
     
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    :wub: :wub: :wub:
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  5. NouvelleVague
     
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    http://valdarno.forumfree.net/?t=23121339
    il 23 dicembre, con i sottotitoli
     
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    Veramente aficionado

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    Un altro fan dei Joy Division :)

    https://modernauta.altervista.org/vincenzo...ociale-podcast/

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5 replies since 2/10/2007, 00:16   247 views
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